giovedì 25 dicembre 2008

Eredità della cucina Etrusca

Il dizionario della lingua italiana Devoto, Oli, alla voce “cucina”, 2. estens. e fig., riporta: “Preparazione e cottura dei cibi (…) normalmente scelti o preferiti specialmente in relazione con i gusti e la tradizione locale ed ambientale(…) ed anche in relazione all’arte con cui i cibi vengono preparati e presentati o alla qualità e quantità.”
Penso che questo concetto possa essere ancora dilatato: è l’insieme di abitudini alimentari, il più possibile diffuse e codificate da comuni regole e procedure, risultato di tradizioni, tecniche, usi e costumi, presenti in un determinato periodo ed in una determinata area socio-culturale.
E’ il modo di nutrirsi, che diventa identificazione in un sistema culturale, dove la struttura economico-sociale, le radici etniche, il clima, i fattori filosofici e religiosi, gli stili di vita gli accadimenti storici e le contaminazioni culturali diventano ingredienti e testimoni dell’affermarsi di una “Cucina”. Essa è per sua natura, quindi, un elemento dinamico.
Per questo, mi è sempre sembrato quanto meno temerario parlare di cucina Etrusca , senza correre il rischio di dire supponenti sciocchezze. Di fronte però all’assenza di fonti documentali probanti, penso si possa osare “per analogie” una serie di ipotesi su una cultura culinaria dei Rasenna. D’altra parte un popolo che non ha lasciato ai posteri una traccia certa che possa descrivere la propria cultura, oltre che la propria storia, non lascia alternative. Dovremo cercare di arrivare ad una parziale conoscenza per vie traverse e cercheremo di farlo con cautela, direi con sospettoso coraggio, tentando di ricostruire, dove necessario, una linea di continuità tra quanto sappiamo del passato e quanto può essere transitato in culture gastronomiche a noi più vicine.
Per questo, preferisco parlare di “eredità della cucina Etrusca”, cercando di individuare tracce su cui tentare ipotesi interpretative. Il compito, fatta questa premessa, mi pare più abbordabile.

Esiste, infatti, un terreno di indagine che poggia su una serie di dati oggettivamente fruibili, risultanti da quanto autori romani e greci riportano al riguardo; e questo è già un punto di partenza.
Quanto essi tramandano, circa i costumi etruschi, se da una parte soddisfa un certo desiderio di “gossip” a carico dei costumi dei Tirreni, dall’altra dà buona ragione delle differenze nell’intendere la vita nelle sue varie espressioni, ivi compresa la cucina. Così il moralismo di maniera dei romani intendeva mettere in cattiva luce il diverso stile di vita, che gli etruschi esprimevano.

Pranzo e Cena, gli etruschi mangiavano esattamente come noi

“Gli etruschi si fanno apparecchiare due volte al giorno una tavola sontuosa con tutto ciò che contribuisce ad una vita delicata, preparare le coperte da letto ricamate a fiori, disporre una quantità di vasellame d’argento, serviti da un numero considerevole di servi.” Così scriveva a riguardo, con una punta di raccapriccio e malcelato fastidio, Poseidonio.
Abbiamo inoltre il legittimo sospetto che quanto i Romani attribuiscono alla propria cucina più antica (dalla Monarchia, all’intero periodo repubblicano), abbia in realtà molto a che vedere con la coeva etrusca. A questo riguardo, è del tutto evidente sia il processo di assimilazione degli stili di vita che Roma subì nel corso del regno degli ultimi Re, sia il ruolo di polo di attrazione che il mondo etrusco rappresentò per la Città Eterna.
Ma c’è di più. Autori romani, anche di età imperiali, quasi per un vezzo o una moda elegante, riferiscono di usi, consuetudini e persino di qualche ricetta. (E’ il caso di Publio Virgilio Marone, di chiare origini etrusche, che ci fornisce una preziosa quanto ricercata maniera tirrena per cucinare il fegato. Ma vedremo anche Orazio e perfino il braccio destro dell’Imperatore Augusto, Mecenate.)
Roma mantenne verso i vicini popoli dei Rasenna un atteggiamento spesso ostile e implacabile, ma pur sempre di una certa deferenza e rispetto. D’altronde il ruolo di Caere, nell’erudire buona parte della “leading class” romana comportò sicuramente una internazionalizzazione dei costumi della capitale, in chiave, ovviamente, etrusca.
Rileggendo la ricetta di Virgilio non si può non pensare a quanto essa sia ancora viva e vegeta nel modo con cui in Toscana si cucinano i fegatelli di maiale ( specialmente nella versione dove fegato e magro vengono macinati assieme), né posso evitare di pensare con riconoscenza ed affetto ai fegatelli della moglie di Duilio, amico di Pancole di S. Gimignano, ancora più in sintonia con le indicazioni del Poeta di Andes.

Un’altra fonte ragguardevole degli usi e costumi dei “Tirreni a tavola” ci viene fornita dagli affreschi di Orvieto e di Tarquinia, i quali, nel narrare con mano minuziosa la tenera e toccante atmosfera della cena funebre, la descrivono, anche con dovizia di particolari, nei tratti fondamentali.
Nella tomba Golini di Orvieto, il banchetto funebre va quindi visto come specchio di un modo di pensare e di vivere, finestra socchiusa per un nostro sguardo curioso all’interno di un mondo sconosciuto, che non cessa di affascinarci. In esso, forse, il desiderio dei vivi di fermare nell’immobilità istanti della vita fra i più cari, per ricordare chi se ne andava.
Possiamo allora osservare, non senza ammirazione, il senso di armonia, di gioiosità e di leggerezza, nelle modalità dello stare a tavola (Come, con chi, serviti come, da chi, la musica, le danze, i giochi, mangiando cosa, come), ma anche nei vari momenti organizzativi della cucina e della sala ( non azzardato un richiamo al ruolo di un sofisticato gard-manger, nella macellazione e nella preparazione delle carni, come pure di un addetto alle cotture su griglie decisamente funzionali e di un sapiente sommelier, intento a miscelare vino, essenze e miele in sontuosi crateri.
Ben undici persone, con varie mansioni, sono riconoscibili come addetti ai servizi di cucina e di sala, con buona presenza di musici, ad allietare il convivio. Quest’ultimi suonano i loro strumenti anche nella cucina, per la gioia dei cuochi, mentre nei locali del banchetto una persona ben vestita sembra svolgere funzioni di direttore-maestro di sala.

Un ‘altra fonte di notizie circa le abitudini alimentari dei nostri antenati Etruschi è costituita da residui di cibi, contenuti in alcune suppellettili, che sono state rinvenute nelle innumerevoli sepolture.
Ci è quindi abbastanza noto quali fossero i prodotti base più utilizzati, ma anche quali i condimenti e le spezie per cucinarli
Sappiamo di quanto fossero rilevanti i prodotti ovino-caseari sia per le carni che per i formaggi.
Di certo, gli albori della civiltà etrusca videro proprio nei prodotti e nei caratteri della pastorizia un importante punto di partenza, nell’evoluzione del sistema produttivo. Oltre ai formaggi (alcuni dei quali prodotti in grandi forme), dal latte vaccino cagliato, si otteneva una specie di ricotta, base di un piatto detto”melea”.
La pesca e la caccia significavano inoltre una straordinaria risorsa per la dieta dell’epoca, assieme, in epoca più tarda, all’allevamento di bovini e suini, nonché di animali da cortile.
Molto importanti, nella vita quotidiana degli Etruschi, erano inoltre l’olio, le olive, i cereali (farro, fave, ceci, orzo, lenticchie in primis), la frutta e le verdure, alcune delle quali erano utilizzate per speziare ed impreziosire le vivande.
I fichi secchi, rappresentavano un alimento molto apprezzato, anche nella preparazione di piatti più complessi, al pari di altri frutti, lasciati essiccare e candire al sole.

Sebbene utilizzabili con prudenza, queste notizie hanno in sé una qualche oggettività, in quanto si evidenziano in dati certi; ma la nostra ricerca non può fermarsi qui, anzi essa prende coraggio.
Per capire di più, bisogna spingersi un po’ più avanti, utilizzando deduzioni logiche, comparazioni, spirito critico e forse un po’ di incosciente fiducia nel fatto che la storia (e ivi anche la storia della cucina) è fatta molto più di continuità, che non di cambiamento. Sembra infatti degno di attenzione il convincimento che nella cucina Toscana, specie quella di campagna, siano rimaste tracce riconoscibili di una cucina ben più antica, che proprio nel territorio dell’intera Tuscia era ben radicata.
Ovviamente, d’ora in avanti, la ricerca diventa squisitamente indiziaria, per assenza di prove vere e proprie, senza per questo essere sterile esercizio di banalità.
Seguiamo quindi tracce di etruschicità, attraverso il tempo, tentando di dare continuità per analogia, cercando di spostare più in avanti la soglia di conoscenza, o di qualcosa che le somiglia.

Nasce a Forcello (Mantova) la cultura del prosciutto e del maiale

L’ultima frontiera, che in silenzio si è aperta agli studiosi e agli appassionati, è rappresentata dalla scoperta di numerosi importanti insediamenti, anche di notevoli dimensioni nell’area trans-appenninica a destra del Pò. A Spina, Felsina, Misa-Marzabotto, Mutina, Mantua, si è aggiunto proprio vicino a quest’ultimo, un nuovo sito decisamente interessante: Forcello (vicinissimo ad Andes, dove nel 70 A.C. era nato Virgilio).
Oltre al fatto stupefacente di mostrare un assetto urbanistico ortogonale, della stessa raffinata modernità di Marzabotto e di Gonfienti (quindi, su entrambe i versanti appenninici) esso ha evidenziato un’attività legata all’utilizzo di un tale numero di suini, da far pensare ad una attività diffusa di conservazione delle carni e forse anche ad un vero e proprio allevamento di animali. Il fatto poi che tra le varie ossa, manchino significatamene quelle posteriori dei maiali, lascia intendere che i prosciutti ottenuti potessero essere acquisiti e consumati altrove. Inutile sottolineare la vicinanza con l’area tradizionalmente vocata alla produzione dei più apprezzati prosciutti italiani, Parma e Modena , nonché con il territorio Mantovano, uno dei santuari della gastronomia italiana.
Ma, restando ai fatti, esiste una traccia che riconduce agli Etruschi un’attività di lavorazione e conservazione di carni suina, detta “norcineria” ancora oggi (da Norcia, città umbro-camerte e quindi, “ab origine”, etrusca). A questo riguardo, nel mappare le aree “elette” dei grandi prosciutti di oggi (Istria, Friuli, Emilia, Toscana, Casentino, Umbria, Spagna meridionale), noto una singolare coincidenza con il percorso che De Palma indica a riguardo dell’espansione dei Tirreni-Pelasgi.

Quanto sono buoni ed antichi i crostini di fegato toscani

Un altro filone da ben sondare è quello relativo al rapporto che lega le pratiche religiose al cibo.
E’ infatti noto come la cucina toscana sia ricca di piatti a base di interiora, e che l’arte aruspicina venisse praticate sulle interiora di animali, allo scopo, sacrificati. Il rapporto di causa e effetto mi sembra piuttosto evidente, tenuto conto che questa abitudine alimentare è ben radicata in tutto il territorio Tuscio, fino a Roma (Trippa, cioncia, picchiante, cervello, fegato, milza, cuore, polmone, schienali, rognone, lampredotto, cento pelli ecc.). Non sembri cosa da poco, basti pensare a quante ricette hanno come ingrediente il fegato, e di quanti animali!
Il cibo, quindi si lega anche agli aspetti sacri della simbologia religiosa. E’ il caso esemplare dell’uovo, simbolo della perfezione, della vita, della rinascita.
Per questo, nelle kylix che le figure ritratte sul triclinio tengono in mano, è l’uovo il simbolo, la speranza e il viatico verso la nuova vita.

Dimmi che pane mangi e ti dirò chi sei

E’ però il pane l’alimento che dà forse più problemi, per risalire ad una derivazione etrusca, per il banale motivo che non esiste prova di lievitazione di farine.
E’ però nota la disponibilità di farine di farro, di grano, di fave, di ceci, di lenticchie e di castagne.
La tradizione romana vuole che le classi meno abbienti si cibassero di focacce di farina di fave, sono quindi tentato a far derivare dal mondo etrusco questa abitudine.
Al pari delle conosciutissime versioni spagnole, dette tortillas, esse erano preparate cuocendo su pietra piatta e ben calda un composto di farina e acqua. Come ancora oggi si fa con la”cecina”.
Una versione più delicata si poteva ottenere mescolando in opportuno rapporto farina di farro e farina di fave (o farina di castagne, visto per analogia l’identico mix di farine per impastare uno strepitoso pane nell’alta Garfagnana o vista la preparazione dei “necci”) diluite in acqua, aiutando il composto pronto per la cottura con olio di oliva o strutto.
E’ del tutto evidente, che si tratta della ricetta un po’ elaborata della “piadina” emiliana e romagnola, che proprio per la coincidenza territoriale di cui prima, trova una sintomatica ricollegabilità Etrusca.
In ossequio alla teoria di Erodoto, secondo il quale gli Etruschi si sarebbero mossi dalle coste Anatoliche, per emigrare sulle coste Toscane, l’uso di focacce non lievitate, del tutto simili a quelle descritte, è perfettamente coerente con analoghi utilizzi in buona parte dell’Asia Minore.
A puro scopo informativo, riporto quanto da qualcuno acutamente osservato, e cioè che nei territori dell’antica Tuscia, e solo in essi, ancora oggi, il pane non contiene sale.
Proprio nel triturare (in latino terere) e miscelare in detta funzione diversi alimenti , erbe , spezie, farinacei e legumi, trova giustificazione l’uso di bacili e mortai, presenti in alcune rappresentazioni della tomba Golini ad Orvieto. (Il paradigma del verbo tero-is, trivi, tritum, terere è già interessante di per sé; ma G. Semerano nel suo monumentale testo “Le origini della cultura europea” vol.II pag.588 riconduce “triticum” a grano da macinare.

Polenta taragna: piatto celtico o etrusco?

C’è inoltre un verbo accadico “tarum”, che significa “girare attorno” e che sembra coerente sia con l’azione della macinatura, sia con il movimento in cottura e che si ritrova sorprendentemente in “polenta taragna”).
E’ molto probabile che le farine indicate in precedenza fossero usate anche per preparare polente ( è il caso della”pula” di cui parla Cicerone, il famoso “puls”, forse il più umile dei piatti etruschi) o zuppe, arricchite spesso con miele e uva passa (si pensi alla ricetta del “castagnaccio” o della “ pattona di castagne” ancora oggi in uso in diverse zone, come in Garfagnana).
E’ abbastanza evidente che da latino puls, pultis deriva il termine italiano “polenta” o, addirittura, il termine in toscano arcaico “pulenda”.
Discorso a parte merita la pasta. Prove reali e certe che facesse parte della cucina dei Tirreni non ne esistono, anche se qualcuno ha creduto di intravedere nella “Tomba dei Rilievi” di Cerveteri un piatto con undici strisce sospette, che ha collegato con un presunto matterello (per spianare la pasta), appeso ad una parete, e addirittura una rotella dentellata (per tagliarla).
Di certo, però, i “pici” o “vermicelli” o “stringozzi”, che poi sono la stessa cosa, vengono fatti con farina e acqua.
Ma oltre al bacile, riconoscibile nell’affresco della tomba “Golini” di Orvieto e usato probabilmente come staccio o come recipiente dove triturare e amalgamare, abbiamo anche indicazioni di altro genere. Vediamo infatti in molti musei archeologici etruschi delle grattugie, del tutto simili alle attuali, verosimilmente usate per formaggi a pasta dura.
Altrettanto, sono ben riconoscibili dei colini di varia grandezza, usati forse per infusioni, ma di sicuro anche per speziare le bevande.

Origini medio-orientali

Penso specificatamente al vino, addolcito dal miele e insaporito e profumato da frutta, fiori, ed altri aromi. Ma anche la tecnica del mortaio, il pesto, tradisce un’origine medio-orientale, con interessanti riscontri in ricette tuttora apprezzate per varie salse.

La cucina Romana secondo quanto riporta Apicio, (l’Artusi o meglio l’Escoffier della Roma Imperiale), aveva raggiunto vette altissime di raffinatezza, che al pari dei “grande cucina francese”, si traduceva in un numero straordinario di salse.

Dove nasce il garum, salsa a base di pesce?

La più famosa di esse era il “garum”, salsa a base di interiora di pesci, lasciate sapientemente fermentare, per legarsi a carni ed altri alimenti cucinati a parte.
Un prodotto facilmente reperibile in ogni negozio di alimentari italiano è la “pasta di acciughe”, che, secondo me è indubitabile e povero pronipote del “garum”.
Ma l’uso così spregiudicato di una salsa a base di pesce, per esaltare carni arrostite, sembra venire da un contesto culturale diverso da quello che Roma aveva in precedenza espresso.
Una ricetta esemplare, dove una salsa di pesce accompagna un cibo a base di carne, è rappresentata dal “sugo di fegatini”, con cui i Toscani preparano i famosi crostini, capolavoro di equilibrio tra sapori e aromi.
Sembra, ma non esiste prova, più una raffinatezza orientale, al pari del delicato e straordinario connubio tra diversi sapori: il dolce (mediante l’uso di miele, frutta e vini dolci), lo speziato e il salato, contemporaneamente presenti in molte ricette di Apicio.
Tracce nella cucina regionale della Tuscia (area geografica culturale, non politica) parlano ancora di questo incontro virtuoso, nelle ricette di selvaggina “al dolce e forte”, difficilmente presenti ormai nella carta di ristoranti anche rinomati, ma capaci di sorprendere il fortunato fruitore per straordinarietà e ricercatezza.
Certamente, sarebbe assurdo connotare con l’aggettivo “Etrusco” tutto quanto di cultura culinaria deriva dall’antichità. E’ opportuno tener presente però che ogni cucina è il risultato di fusioni e contaminazioni culturali molteplici.
E quale popolo, se non l’Etrusco, era stato in grado di fungere da mediatore culturale, tramite l’incessante azione commerciale con tutto il mondo conosciuto, in quei fatali dieci “saecula”?
Questo ruolo di scambiatore di esperienze culturali 0riente/Occidente, le più varie, è il tratto più tipico e qualificante della civiltà Tirrena, in quanto mentalmente orientata a scambi di idee, di merci, ma anche di tecnologie e stili di vita.
Ma se la cucina etrusca sta all’origine della cultura culinaria che ci riguarda, occorre valutare il consistente contributo delle successive epoche e civiltà. Si passa quindi dalle esperienze di epoca Romano-Imperiale, con tutti i contemporanei contributi di derivazione Greco- Classica, a quelle tipiche dell’Alto Medioevo, per poi passare ad altri svariati e innumerevoli aggiornamenti successivi, figli di culture a noi sempre più vicine e conosciute. E questo conferma che il fenomeno di formazione di una cultura, compresa quella culinaria, è il risultato di una ininterrotta serie di acquisizioni, dove poco si butta e molto si conserva, fino a farne un condiviso e codificato patrimonio di stili di vita.
Per questo, viene sostenuta l’ipotesi di una linea di continuità tra il cosmopolitismo culturale e commerciale etrusco e l’esperienza mercantile delle Signorie toscane, fondamento del Rinascimento italiano.
Ma anche da esso, le eredità per i posteri sono state molteplici e rilevanti, tali da connotare una civiltà intera, ivi compresa quella che si apprezza a tavola: Caterina dei Medici porta alla corte di Francia cuochi fiorentini, oltre che l’uso meritorio della forchetta.
Ma questa è un’altra storia!

Dante G. Simoncini      tratto da:   http://liberamenteprato.blogspot.com/search?q=etruschi
PRATO:   IL CENTRO.. IL CENTRO.. O LA PERIFERIA, ALLORA???

Perchè le periferie sono abbandonate? Perchè si permette il degrado sociale favorendo la delinquenza e lo spaccio? Perchè nelle periferie non si favoriscano luoghi di aggregazione sociale (spazi culturali, scuole di musica, e luoghi dove potersi confrontare e scambiare opinioni, ecc.) nei borghi periferici per contrastare il disagio sociale e offrire un opportunità in alternativa alle multisale e ai centri commerciali? PERCHE' QUESTI ARGOMENTI NON VENGONO MAI PRESI IN CONSIDERAZIONE DALLA NOSTRA AMMINISTRAZIONE?

CENTRO ANTICO RIQUALIFICATO
 
Il titolo del convegno promosso dal Comune in Palazzo Pacchiani, “Progettare insieme la città di Prato: il centro storico di Prato” propagandato come “forum di discussione con i cittadini”, era sicuramente accattivante e alte le aspettative, un po’ meno forse la partecipazione cittadina ed alcuni aspetti progettuali riguardanti i rapporti con i borghi esterni o minori. L’obiettivo principale è stato senza dubbio il progetto di recupero delle antiche mure medioevali, liberandole dai vecchi edifici , con un occhio particolare di riguardo anche al cosiddetto “macrolotto zero”. I nostri assessori all’urbanistica ed al centro storico (Ciuoffo e Gregori) si sono prodigati a diffondere il messaggio che occorre un progetto complessivo che, calato nella nostra articolata società multietnica, tenga conto anche della presenza degli immigrati e della parte buona di questo fenomeno. Per l’Amministrazione occorre quindi dare un uso nuovo al centro storico, sforzandosi di realizzare una riqualificazione dell’ambiente tenendo conto di chi abita tale luogo.
“La città antica- ha sostenuto Giuseppe Gregori – è poco meno di 1 kilometro quadrato, ma nonostante la sua dimensione deve essere la cartina di tornasole di tutta la città, un luogo dove abbiamo applicato e serviranno ancora misure di carattere estetico”.
Secondo l’assessore Ciuoffo questo convegno è stata l’occasione per dire cosa rappresenta il centro storico in città e quali valori esprime nel contesto sociale; inoltre -sempre per l’assessore- il Comune ha portato nuove funzioni nel centro storico e non il degrado, così come dichiarato da alcune parti. Anzi, per incidere ancora meglio in senso positivo, verranno liberate in alcune aree le mura trecentesche di Prato, come in piazza San Marco e nei pressi di porta del Leone, in via Cavour. A favore dell’Amministrazione ci sono poi gli interventi su palazzo Pretorio, sulla ex manifattura Campolmi, su Palazzo Vestri (ex albergo Stella d’Italia) e al giardino Banci Buonamici.

PRATO CITTA' DEL DEGRADO?

Anche il presidente della Provincia, Massimo Logli, ha sostenuto la tesi del non degrado, dicendo che i problemi nascono non dalla mancanza di interventi, ma dal fatto che la città non ha percepito di vivere in un posto di qualità, forse perchè non ci siamo ancora abituati a considerare Prato come Provincia autonoma. Una riflessione su come valorizzare la città è giunta poi dall’architetto Marco Mattei, che ha curato il recupero della Campolmi. “Il prof. Cusmano – ha detto Mattei- è intervenuto stamani parlando della priorità della residenza nella città antica, della necessità che vengano utilizzati i servizi. Ebbene, il nostro centro non è in crisi di 
degrado, così come strumentalmente viene evidenziato: ci sono sì aree di degrado, ma sono marginali nel contesto”. Mattei ha quindi tracciato la strada del “giusto riuso” dell’assetto storico di Prato, passando poi a chiedere se gli interventi che si dovranno fare devono avere una valenza di natura conservativa oppure di nuova progettualità, entrando nel merito degli interventi. “A volte – ha precisato Mattei – oltre ad avere pessima architettura, possiamo avere pessimi interventi di riuso e riqualificazione: è perciò necessario porsi sempre nella prospettiva dualistica memoria/innovazione. Vorrei chiudere l’intervento invitando tutti a cogliere l’occasione dell’intervento del recupero, ascoltando l’onda lunga della città storica”.

INTERVENTI DEL PUBBLICO

Tra gli interventi del pubblico segnaliamo quello di Fulvio Batacchi, in rappresentanza di Italia Nostra, il quale ha domandato chi è che valuta, nel caso della ristrutturazione di un edificio, la congruità dell’inserimento di un progetto all’interno del centro storico. “Ho visionati i progetti esposti –ha commentato Batacchi- e tra questi quelli di recupero di piazza S.Marco e S. Fabiano: non vorrei che la città si trovasse a fare i conti con una parte storica inframezzata da palazzi a vetri o troppo tecnologici che cozzano con il contesto: va bene l’innovazione architettonica, purché congrua con la città antica”. Dello stesso avviso una residente nel centro, la quale ha invitato l’Amministrazione a prendere in considerazione la “figura del curatore urbano”, come avviene in alcune grandi città nord- europee, che non deve essere per forza un architetto, ma una persona di grande cultura con forti valori estetici. L’architetto Ricchiuti, curatore di due progetti, ha invece evidenziato che il punto critico della ristrutturazione “non è solo la è parte estetica, ma anche la qualità dei materiali che si impiegano e le finiture, in quanto possono deteriorarsi precocemente rendendo vani gli interventi di riqualificazione”. Anche l’arch. Cantini è intervenuto criticamente, sottolineando come le risorse della città, sinora, non siano mai andate verso il centro storico e che l’identità del centro è stata valorizzata molto poco.

IL VALORE DELLE PERIFERIE

A termine degli interventi è stato quindi introdotto il secondo tema inserito nel programma del forum, ossia “Nuove centralità: riconoscimento e valorizzazione dei caratteri di borghi minori, rapporto tra centro e borghi esterni ed i confini della città densa”.
A questo punto sia gli interventi dei relatori che del pubblico hanno registrato un momento di pausa e non è seguita alcuna discussione.
Francamente siamo rimasti un po’ a bocca asciutta, perchè pensavamo che va bene lavorare sul centro, ma se alla qualità ed ai valori della città contribuiscono anche le numerose frazioni, tuttora vive ed attive in azioni sociali e dove i valori di partecipazione e senso di appartenenza non sono in crisi ma rappresentano anzi il punto di forza, allora perchè non applicare i criteri scientifici di progettazione e le attenzioni poste alla città antica anche verso i nostri “borghi esterni”? 
O vogliamo ridurre queste centralità periferiche a mere dormitori della città al servizio di centri più potenti e nobili di Prato?
Se pensiamo che esistono frazioni che, a fronte dell’esistenza di due scuole, non hanno neppure una palestra pubblica, che le aree verdi nascono sempre come interventi riparatori dopo la cementificazione e che é del tutto assente una visione di insieme che veda prima la realizzazione dei servizi, quali strade, copertura di fognature a cielo aperto già esistenti, luoghi di incontro per la cultura e per lo sport, rimaniamo stupiti e non capiamo perchè anche per questi centri minori non si possa intravedere un percorso progettuale che parli di riqualificazione, interventi con valori estetici e che risponda alla esigenze degli abitanti di questi borghi minori.
A questo punto non ci resta che sperare che la futura legislatura porti con sé una ventata di novità e di attenzioni nuove sia per i cittadini che per tutta la città, periferia compresa.

autore: Enrico Bianchi  - copyright 12/2008
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